mercoledì 14 dicembre 2011

"STICAZZI E STILIVIDI" [cit]


Dopo i preservativi targati Louis Vuitton e Burberry, i vibratori di Hello Kitty e le manette di Cesare Paciotti, Diesel stupisce tutti e con un colpo - non si dovrebbe usare questa parola in questo caso, ma purtroppo è così - ha scansato tutti. E vince.
Rullo di tamburi.
Ed un caloroso applauso al marchio italiano per le sue Blowjob Kneepads.

Niente bigottismo né perbenisismo, solo complimenti per la genialità Diesel: comode ginocchiere, lanciate dal marchio per consentire a donne e uomini di fare sesso orale senza farsi male alle ginocchia. Mica un'invenzione da niente. Basta cuscini, basta lividi, spazio alle ginocchiere.
Purtroppo il meraviglio strumento di piacere e comodità è in vendita solo in India (dove peraltro la pratica orale è considerata fuori legge): Diesel offre gratuitamente ai clienti che spendano più di 150 dollari questo piccolo omaggio. Oltre a fare la cresta sulle spedizioni, potrà tornare utile svezzare le/gli giovani indiane/i.

Ovviamente non sono niente di nuovo, non è che Diesel ha inventato le ginocchiere del secolo: sono ginocchiere qualunque, come quelle che si usavano per andare sui pattini o per qualunque altro sport. "Vien quasi da pensare che l’oggetto in questione richiami esclusivamente il marchio e non il vero e proprio uso in sé, ossia l’accortezza di proteggere le ginocchia durante l’esecuzione dell’atto sessuale". Ma no.

Dicono che quello che colpisce sia il packaging. La confezione all'esterno è molto anni Cinquanta: slogan come "knee caps for better head", cioè "protezione delle ginocchia per una testa migliore" (la regia informa che "head" ha come significato anche "fellatio senza mani": l'interpretazione dello slogan vien da sè) e "buy one and get one pearl necklace free", "paghi uno e prendi una collana di perle gratis". In una parola, pay-off molto efficaci. Per non parlare della stampa interna: l'efficacia fatta ad immagine. Dicono stupisca il ritratto di una donna a bocca aperta. Cosa ci sarà poi da stupirsi?

mercoledì 7 dicembre 2011

REVENGE, IL TELEFILM NON PERDONA

Alexandre Dumas, Quentin Tarantino, un pizzico di Gossip Girl e chi più ne ha più ne metta. Il tutto ambientato negli Hampton. Auguri.


Emily Thorne, prima nota come Amanda Clarke, è bella, bionda e disposta a qualunque cosa pur di riuscire ad ottenere una spettacolare quanto crudele vendetta nei confronti di chi ha rovinato suo padre ed il loro idillio: "Lo sai quanto ti voglio bene, Amanda?" - "All'infinito?" - "Bè, all'infinito moltiplicato per infinito". A chi non verrebbero dei traumi? Al limite del complesso di Elettra.
Ecco allora la Sposa tarantiniana diventare la Figlia. L'Edmond Dantes dumasiano farsi i boccoli.

Dal pilot intuiamo che il piano della emo Amanda (appena uscita da quello che sembra un riformatorio, lo è) prende forma quando lei aveva diciotto anni: l'amato genitore morto, una fortuna in eredità, un alleato che sembra uno degli Oasis e una scatola. Le scatole non contengono mai nulla di buono ed infatti raccoglie tutte le magagne sul complotto che le ha incastrato il padre e l'identità di tutti quelli che hanno distrutto la loro vita. E chi ha rovinato la vita ad una bambina che ama le stelle marine e al suo papà con le méche? La cricca di cattivoni newyorchesi, che ruota intorno all'ape regina, Victoria Grayson.
La premessa è buona, il pilot coinvolgente. Non c'è niente di nuovo però eh: luoghi di villeggiatura come gli Hampton, fin dai tempi di Agatha Christie con "Delitto al sole", hanno avuto quel potenziale da luogo di violenza e perdizione. Per non parlare della componente Peyton Place, una piccola comunità appartata ed isolata, dove vige la monarchia assoluta della più botoxata Madeleine Stowe degli ultimi tempi.

Ma la serie ABC firmata Mike Kelley racconta un complicato ed esaltante bel piano di vendetta di quelli dai quali non ti puoi staccare perchè tanto tutti centrano con tutti. Ma qualche errore di sceneggiatura l'abbiamo fatto.
I monologhi in voice over? No. Erano bastati quelli di Grey's Anatomy a far la morale sulla vita e sulla piccolezza di noi umani, e ora arriva la Emily Thorne della situazione a ripetere nella sola puntata pilota "revenge" e "forgiveness" una quantità tale di volte che vien da dire HOCCCAPITO.
Le riprese sgranate dei momenti con il padre (e la relativa soundtrack)? No.

Ma fortuna che poi arrivano tutti quei cliché di personaggi che danno subito quella sensazione di essere a casa, come a guardare un telefilm da adolescenti: il marito infedele che frequenta biblicamente la migliore amica dell'ape regina è un affronto enorme pagato con l'ostracizzazione della povera, una giovinetta modaiola che indossa bikini da esplorazione rettale e un figlio maggiore bello e spavaldo che conquista tutti con quella mossa zoolanderiana di togliersi gli occhiali da sole, il giovane proletario che mette gli occhi sulla giovinetta modaiola di prima, l'organizzatrice di eventi ex-escort di "Il diario segreto di una squillo perbene", e un nugolo di Mean Girls.

Tutto questo appoggiato su fondali infiniti, al limite di un film in costume, insieme a questi primi piani intensi ed ammiccanti tipici di un piano di vendetta. Qui è lo spettatore che sa più dei personaggi stessi: è il tantosochemuori contro il nonsocosastasuccedendo.
E la chicca iniziale di Jack che uccide Daniel alla sua festa di fidanzamento con Emily, mentre Nolan le strizza l'occhietto è davvero un amore.
Tutto andrà per il meglio.

mercoledì 30 novembre 2011

SCUSA (SESSO) MA TI CHIAMO AMORE

Orge. «Posso andare a guardare, per interesse antropologico, per i ritratti umani». Da ragazza esperta a scrittrice, da cartomante televisiva ad antropologa. Il viaggio è stato lungo per la nostra Melissa P (anarello per intero) che ora si cimenta con la saggistica: “In Italia si chiama amore” è la sua ultima fatica. Come cresce la nostra bambina.

Non le è mai stato stretto questo parlare sempre della stessa cosa?
Ho fatto anche altro. E poi è come chiedere a Lucarelli se non è stanco di parlare sempre di crimini.
Magari è stanco.
Io penso che invece gli interessi, come a me interessa il sesso.
dall’intervista di Silvia Nucini a Melissa P. su Vanity Fair n.47
  
Il nuovo libro (con lo stesso titolo dell’inchiesta tv di Virgilio Sabel del 1963), edito da Bompiani, dipinge in 111 pagine il ritratto dell’Italia di oggi, vista attraverso il filtro del sesso. E a quanto pare quello che si vede non è che sia un bellissimo spettacolo. Ma proprio per niente.
Una sorta di excursus nella sessualità nostrana alla ricerca di grandi scoperte. La nostra studiosa dovrebbe essere una delle ultime a cui manca ancora qualcosa da scoprire, ma vabbbè... la sete di conoscenza non ha limiti. Ogni personaggio rasenta il grottesco, l’eterna altalena/cliché tra la ragazza che sogna la ricchezza e per averla si vende e il potente che con i soldi si compra il piacere. Le scoperte antropologiche eh.

Milo Manara, vero e indiscusso maestro della trasgressione, in un’intervista rilasciata a Francesco Caldarola diceva: «
La mia contestazione parte proprio dal messaggio che si evince da questi fatti (il Bunga bunga, nda), e cioè che a venire prima di tutto è il denaro. Queste ragazze vengono assolte anche dall’opinione pubblica, assolte dalle regole del mercato. Non viene più giudicato l’aspetto morale, né quello erotico, ma solo quello mercantile. Nei miei disegni il desiderio è una delle componenti più importanti. L’altra è la trasgressione al comune senso del pudore. Ma oggi è molto difficile suscitare pubblico scandalo». Quando ha iniziato a disegnare, il maestro, alla fine degli anni Sessanta sì che l’eros (molto più politicamente corretto del volgare sesso) era eversivo, provocatorio, liberatorio. Ah, caro Milo, non torneranno quei bei tempi, in cui una tetta nuda o un accenno di chiappa potevano davvero far venire uno s’ciopone. O altro.

«Il nostro è il paese degli esibizionisti – spiega la ventiseienne sessuologa P. – che rispondono alla richiesta di un popolo di guardoni. È il paese in cui, ancora oggi, a pronunciare la parola “sesso” fa scappare la risatina da bambini. Nonostante l’ostentazione pornografica a cui dagli anni Ottanta in poi siamo stati abituati, in Italia regna un pudore sconsiderato. E non vengano fraintesi comportamenti e costumi odierni, più libertini di quelli di ieri: una minigonna inguinale può rivelarsi una maschera tanto quanto una gonna sotto il ginocchio. Un tempo, almeno, l’ipocrisia aveva una veste adeguata. Oggi, invece, è un’ipocrisia travestita da libertà».

Andando oltre gli stereotipi, c’è qualcosa di romantico e poetico in tutto questo. D’altronde come nelle orge, dice la nostra Meli dai cento colpi.
Che poi tutti scambiano la sua pudicizia, per freddezza. Povera.



giovedì 24 novembre 2011

AMERICAN HORROR STORY: MAI FIDARSI DEI VICINI

«Ve ne pentirete. Ve ne pentirete. Ve ne pentirete». E il pentimento non ha tardato ad arrivare.
American Horror Story è davvero uno strepitoso mix tra i classiconi dell’horror e le vie della psiche umana. Bello ed affascinante, fa decisamente decisamente paura. Anche troppa.


Si parte dal solito cliché: due gemelli (un grazie a Shining) muoiono nella casa infestata e trent’anni dopo lì dentro ci va a vivere la famiglia con più traumi del mondo. Già brividi. E intanto si dipana la storia di questa famiglia, gli Harmon poveretti, che a quanto pare ne ha una nuova ogni giorno. Ben (psichiatra mica tanto regolare), Vivien (ex-violoncellista fissata con il bio e traumatizzata dalla vita) e la figlia Violet (una emo sociopatica), senza contare il fantasma del figlio abortito – cinismo a parte, uno ci passa anche sopra – arrivano a Los Angeles, dopo essere scappati da Boston per dimenticare il passato. Il passato si chiama Aborto e Tradimentodiquellostronzodelmaritochepersuperareiltraumadellaperditadelfigliosièscopatounasuastudentessa.
Da qui tutto diventa allucinante ed allucinato.

Il vicinato è a dir poco improbabile. Costance – quel gran pezzo di Jessica Lange – è la sciantosissima vicina di casa, non poco inquietante: ex attricetta, ha mollato tutto quando è arrivata la “mongoloide”. La suddetta è Adelaide, la figlia down di Constance, quella che ha cercato di avvertire i gemelli che per loro quel giorno sarebbe finita male («Morirete lì dentro»), e invece…
Intorno altri due o tre personaggi, ma non meno da brivido. C’è Tate, un giovane paziente di Ben, con l’ossessione del sangue, che diventerà la coscienza cattiva di Violet (che fine fa quella povera compagna di scuola), ma che ringraziamo per l’omaggio a Rick Genest. Poi salta fuori la storica governante di casa, Moira, quella che tutti vedono come una vecchia con un occhio di vetro, ma che agli occhi di Ben è una topa assurda che fa zozzerie nelle stanze vuote. Ed infine, giusto prima che il primo episodio finisca fa la sua comparsa Larry, il Due facce della situazione, rimasto sfigurato nell’incendio in cui ha ucciso la moglie e le due figlie: però le ha uccise perché glielo dicevano le voci nè.

La serie si muove bene tra l’horror (grandi citazioni di Shining e Psycho e storici cliché come il sottoscala, la casa infestata e roba varia) e lo psicologico (Ben che va sonnambulo a cercare sempre il fuoco mette ansia, soprattutto dopo che Larry caro in quella casa ha ucciso la famiglia bruciandola). In mezzo a tutto questo una vera ossessione per il corpo umano. E per il sesso, com’è giusto che sia (solo Vivien poteva trovare un fantasma pervertito che se la scopa con addosso una tuta di pelle sadomaso).

Pare ci siano tutti i presupposti perché questa serie diventi un fenomeno. Sempre se prima della fine dei tredici episodi a qualcuno non prenda un crìc dallo stremìssi. Per sicurezza, guardare qualcos’altro.


giovedì 3 novembre 2011

VIDOCQ E' SHERLOCK HOLMES

Sempre odiati i film francesi. Sempre. Sarà che sono ignorante, sarà l'accento fastidioso, sarà la puzza sotto il naso, ma l’odio è sempre stato così, naturale.
Finchè arriva un film del 2001 a far cambiare idea. Vidocq.

Prima di tutto: una trama semplice – apparentemente – che funziona sempre.
Parigi, 1830. "Vidocq è morto". E già il film comincia bene: muore il protagonista, olè. L'investigatore Vidocq muore cercando di risolvere una serie di misteriosi omicidi; il suo socio Nimier riceve la visita del biografo ufficiale di Vidocq, uno sbarbatello di nome Etiénne, deciso a risolvere il caso per vendicare l'investigatore, e scrivere l'ultimo capitolo del suo libro. E da qui comincia tutto l’ambaradan.

Pitof, alla sua prima regia, dà una buona prova di sé. Trasporta sullo schermo la novella di Jean Christophe Grangè in una maniera irresistibile. Avanti e indietro, avanti e indietro tra presente e flashback tutti i vari flashback. Ma il vero mal di mare – detto sinceramente – è dato dalle riprese: strettissime inquadrature e cambi di prospettiva improvvisi, la telecamera che si muove insieme al personaggio muovendosi insieme a lui. Insomma, nausea, ma alla quale tutto sommato dopo due o tre minuti ci si abitua.
Il cast però è fantastico. Gerard Depardieu è sull'orlo dell'infarto dopo ogni inseguimento. Moussa Maaskri ha il suo sporco perché, con sto geco che gli risale la faccia. Guillaume Canet sarebbe sembrato meno stupido con un taglio di capelli migliore e un abbigliamento meno da hobbit. Ines Sastre è buttata assolutamente lì a caso, ma va bene così.
Per il resto gran film, d’effetto.

C’è da dire che se è vero che sir Arthur Conan Doyle pare si sia ispirato al personaggio di Vidocq, peraltro realmente esistito, per il suo Sherlock Holmes, è altrettanto vero che Jean Christophe Grangè si è ispirato a Doyle per la struttura della storia, da vero thrillerone, e la caratterizzazione di Vidocq. Inglese e francesi, non la smetteranno mai.

venerdì 21 ottobre 2011

HALLOWEEN-A'-PORTER FT. BIELLA



Halloween. Bla, bla, bla, dolcettooscherzetto, bla, bla, bla, festa delle streghe, bla, bla, bla, trashata americana. Però Halloween è sempre Halloween e non c’è niente da fare.

Il biellese, ormai attivo sostenitore e generatore di inutili e balzani argomenti, non si è smentito nemmeno questa volta. Oltre ad essere grande conoscitore di musica ricercata, non si può certo negare la sua innata propensione per ciò che è bello (donne comprese): da autentico esteta qual è, una festa come Halloween non poteva salvarsi.
Grandi idee per grandi travestimenti.
Così, unite le forze e spremuti i cervelli, ne è uscito davvero il meglio.
Dopo l’elezione da parte della stampa locale ad esperta di moda, i consigli dovrebbero andare nella direzione della classifica stilata dal Chicago Tribune a riguardo (anche se un meritatissimo applauso va al travestimento da tamarra di Jersey Shore).
Invece da brava – e vera – fascionblogger (sì, fascion scritto fascion) unita ad bravo e vero professionista dell’esserefuoriditesta, ecco le prime idee partorite:

  • Steve Jobs zombie, perché la tecnologia lo terrà in vita per sempre
  • Gheddafi, ancora insanguinato però
  • Salma trafugata di Mike Bongiorno, oppure bara trafugata, a piacere
  • Nicole Minetti, vestita però, altrimenti che paura fa!?
  • Er Pelliccia pompiere con estintore da lanciare in caso di incendio
  • il gatto inopportuno del porno di Belen Rodriguez
  • il pisello moscio e piccolo dell’uomo del porno di Belen (sembrerà ripetitivo, ma l’attualità è tutto in queste feste)
  • Giulio Tremonti con forbicione insanguinato per i tagli
  • Amy Winehouse, morta e risorta

Tagliando corto, buon allouin in anticipo.

Applausi e ringraziamenti possono essere recapitati sia personalmente sia via posta.
Di nuovo grazie al biellese: senza di lui tutto questo non sarebbe stato possibile.

venerdì 14 ottobre 2011

CHUCK E SHANNON: I MOSTRI


Niente e nessuno è ciò che sembra. Esticazzi. Ecco, sì, questo descrive bene Invisible Monsters. Non è un libro, è un delirio, lucido, ma pur sempre un delirio. Cioè, oddio, ad una prima impressione può sembrare solo un incoerente delirio: non si può pensare che una storia così grottesca e surreale (una top model senza mascella – gli uccelli hanno mangiato la mia faccia – una donna che in realtà è un uomo, un uomo che in realtà è una donna, un uomo imbottito di ormoni femminili a sua insaputa) possa essere presa sul serio. Ma Palahniuk spiattella lì senza mezzi termini quello che per gli americani non solo è normale, ma quasi ovvio: la bellezza, gli psicofarmaci, le feste patinate, l’omofobia, l’incomprensione con i genitori (sì, perché la povera Shannon riceve come regalo di Natale dai suoi pacchi su pacchi di preservativi, con Perry Como in sottofondo; e si dispiace per qualunque cosa: Scusa, mamma. Scusa, Dio). Direi che come approccio all'autore, l'inizio è col botto.

Anche perché la storia gira tutto intorno a questo: Shannon McFarland è una bellissima modella di successo, un giorno però un misterioso colpo di fucile (i sospetti oscillano fra la sua migliore amica Evie e il suo fidanzato Manus) la colpisce in pieno volto staccandole la mascella. Ricoverata in ospedale e diventata un mostro col viso mutilato, Shannon conosce Brandy Alexander, un bellissimo transgender in procinto di realizzare il suo ultimo intervento per completare il suo cambiamento. Brandy accoglie sotto la sua ala protettrice Shannon e la guida in un viaggio fisico e spirituale alla ricerca di cosa si è e di cosa si vorrebbe essere, senza però avere un’idea precisa né di una né dell’altra cosa. Sono entrambi alla ricerca di un posto che non sia sulla mappa. E ci sono anche altri quattro personaggi che girano intorno alla magica coppia Brandy-Shannon, che ha fatto della Physician’s Desk Reference la sua Bibbia: Evie Cottrell, la migliore amica di Shannon, modella anche lei ma molto meno bella della protagonista, Manus Kelley, il bellissimo fidanzato di Shannon, Seth, compagno di viaggio delle due bellezze (con una grandiosa teoria più e più volte ripetuta: Seth dice che il fatto di essere nati rende i tuoi genitori Dio. Gli devi la vita e ti possono controllare. “Poi la pubertà ti rende Satana – dice – solo perché vuoi qualcosa di meglio”), e Shane, il fratello di Shannon omosessuale, morto di AIDS qualche anno prima e verso il quale la protagonista ha sempre provato un puro odio causato dall'invidia.

L’irresistibile fascino delle bugie. Ecco cos’è. Il tutto mischiato a una buona dose di moda, silicone, chirurgia plastica, pasticche e ormoni.
A libro finito due sono le idee che montano in testa: che essere diversi è l’unico modo per tornare sui binari. E che la bellezza è una maledizione, un demonio che priva le persone della propria anima: l’unica cosa che si arriva a desiderare è di non avere tutto questo.
Una tragedia vissuta e raccontata con uno strano stranissimo tocco di femminilità (ma dopo un po’ pure il confine tra maschio e femmina si comincia a perdere, non è facile fare un distinguo solo perché uno ha il pisello e l’altro no), un dolore tutto al femminile, anche – soprattutto – per chi femmina non lo è.


“La cosa più noiosa del mondo – Brandy dice – è la nudità”.
La seconda cosa più noiosa, dice, è l’onestà. 

lunedì 10 ottobre 2011

GLI INGLESI SONO MACABRI

Essere sempre l’ultima a scoprire le cose è una dote. O meglio una cosa che c’hai e non ti scolli. Ed ecco allora che approdare a siti fantasticamente illuminanti non è più una cosa da condividere, se quegli stessi siti sono già conosciuti all over the world. Ma vabè. Alla scoperta di Vice (questo il sito scoperto, ma che sembra che già tuuuutti conoscano), cerca cerca, ravana ravana, ci si imbatte in un’artista mica tanto registrata. Miranda Hutton.
Ah, prima che la legge bavaglio banni questo post all’istante, rettifico il giudizio riguardo la fotografa inglese: è molto brava, “mica tanto registrata” si riferisce ai soggetti non convenzionali usati per le sue  fotografie.
Prendi una macchina fotografica, metti a fuoco stanze di bambini morti. E scatti. Questo è “Rooms Project”, datato 2003/2004. L’intervista sul sito è fantastica: lei racconta di come questo progetto nasca da un trauma (a 17 anni le muore un’amica di cancro e i genitori – dell’amica – lasciano che loro amici entrino nella stanza della poverina, e anche spesso). Quindi Miranda intuisce subito il legame tra spazio e oggetti. Ovviamente, la foto della stanza dell’amica c’è, fatta con anni di distanza ma c’è.

[…] fotografare quella stanza ha significato immortalare gli oggetti, costringendoli a raccontare le loro memorie nascoste. Dopo quel che ho fatto la stanza ha subito un graduale cambiamento e piano piano i genitori hanno cominciato ad utilizzarla […] Nonostante l’arredamento sia rimasta praticamente lo stesso, all’interno è stata data una spolverata e alcuni oggetti sono stati spostati.
Quindi, in parte, è merito tuo e del tuo progetto se i genitori sono riusciti a superare il trauma?
no. Non credo di aver aiutato, ma sono convinta che esista un processo universale secondo cui la gente nelle prime fasi del lutto resta aggrappata agli aspetti materiali del defunto per poi lentamente lasciarli andare. Le mie immagini immortalano solo una parte di questo lungo processo di accettazione del dolore […]
Lavorando al progetto cosa hai trovato più interessante?
Molte di queste stanze finiscono per diventare il ripostiglio di valigie e cose così, quando succede è significativo perché vuol dire che si sta andando avanti. Ci sono altre situazioni […] e stanze in cui sembra che le cose non siano mai cambiate. […] Un’altra cosa interessante è che anche quando vengono riutilizzate, l‘arredamento non cambia mai, sono sempre la stanza “di quello o di quell’altro”. Sai, la stanza di Allison o la stanza di Susan.
Ed eccola qui, il Caronte dei vivi. Ti muore un figlio, fai ciiis.
Sembra una cosa strana, ma mica tanto: nel film “The Others” (brividi e popcorn per due ore intere, oltre a qualche principio di angina pectoris qua e là) si racconta che ai morti venivano fatte fotografie nelle quali sembrava che dormissero in modo da racchiuderne l’anima. Ebbene sì, e sti ghostbuster de no’attri erano pure convinti di catturare gli spiriti sulla pellicola fotografica, pensa te che ròba. Ed era pure una cosa un sacco di moda nel vecchio mondo anglosassone. Questi inglesi.

mercoledì 5 ottobre 2011

IL DIO DELLA CARNEFICINA E' QUI


“Il mio credo è il dio del massacro”.

Questa frase basta – ed avanza – per eleggere Carnage di Roman Polanski un autentico gioiellino. Tratto dall’opera teatrale The God of Carnage di Yasmina Reza, poi coautrice della sceneggiatura, e presentato all’ultimo festival di Venezia, l’ultima fatica del maestro ha decisamente fatto breccia. Superato lo scoglio del timore reverenziale col quale ci si avvicina a registi del genere, la pellicola regala bei momenti. Di sconforto. E scoramento. Diciamo che Polanski riesce appieno nell’intento di sconvolgere. Sì, perché l’intenzione è quella: smantellare il perbenismo della middle-upper class americana, riaffermando la potenza primitiva dell’istinto barbaro.

Ma con ordine. Prima la trama. Due nanerottoli undicenni si picchiamo al parchetto, uno rompe i denti all’altro con un bastone. Penelope (Jodie Foster) e Michael Longstreet (John C. Reilly), liberali genitori della picchiato, convocano in casa loro Nancy (Kate Winslet) e Alan Cowan (Christoph Waltz), superimpegnati genitori del picchiatore, per chiarire l’accaduto. Punto. Sì, punto perché in teoria non c’è nient’altro. In pratica, è la caduta libera verso l’inevitabile schianto: si vomiteranno addosso – in più di un senso – magagne, insoddisfazioni e rospi tenuti in gola per troppo tempo.


Un poker di protagonisti, una sola location: è teatro.
Per 79 minuti non ci si riesce ad alzare dalla sedia, incollati, senza tregua. La trama da la stessa dipendenza che il guardare dalla serratura quello che fa il vicino. Spiare dà dipendenza. Perché è così, in questo film Polanski spia senza rispetto la vite di questi quattro.
Quattro, poi, mica tanto a posto. Penelope Longstreet, interpretata da un’isterica Jodie Foster, sembra uscita direttamente da una delle peggiori puntate di Sos Tata: madre-maestrina, pignola, iperprotettiva e nevrotica, sembra peggio di mia madre. Se la prende solo per le cazzate: i tulipani, la torta, cosa è in frigo e cosa no. Micheal Longstreet, bè, poverino. È l’uomo voletedelcaffè, voletedellatorta, l’uomo chivuoledelloscotch: insomma, il sottomesso che poi esplode. Nancy Cowan è una reale meraviglia: falsa, stressata e con la fissa per quel povero criceto. E poi Alan Cowan, lo stronzo per eccellenza, con Walter che chiama sempre nei momenti meno indicati e un mix di John Wayne e Ivanhoe come modello comportamentale.

Ripeto, questo film è un gioiello.


E non parlerò di The Dreamers di Bertolucci. Perché sarà che sono ignorante, però ...