mercoledì 28 settembre 2011

SAI TENERE UN SEGRETO? NO

Fruga fruga nel web e fruga fruga suoi profili di facebook di persone varie e si trova il link per il paese delle meraviglie. Questa wonderland si chiama PostSecret.
PostSecret è un blog, è un miocarodiario collettivo, è una seduta di psicoterapia. Tutto gratis.
La descrizione: «PostSecret is an ongoing community art project where people mail in their secrets anonymously on one side of an homemade postcard».
Quando la semplicità è la chiave per il successo.

E ce n’è di tutti i gusti: da chi confessa il suo peggior segreto a chi si scarica la coscienza di aver fatto un tafognino al lavoro, da chi dichiara la sua omosessualità a chi confida il suo malessere.

Che poi a dirla tutta, cos’è un segreto? Bah, qualunque cosa sia, ormai non lo è più. O si è evoluto. Che poi è come giocare al gatto col topo: ti prendo ma non ti prendo. Nessuno vuole davvero avere un segreto, perché condividere un segreto con qualcuno crea un legame speciale, tuttavia l’essere così gelosi di se stessi inibisce la condivisione. Allora, ecco il trucco. Lanci il sasso e nascondi la mano. Butti là il tuo segreto, sul web, alla mercè di chiunque. Se qualcuno capisce bene, arriverà la sorpresa e quella sensazione di violenza privata, altrimenti si alzerà la cresta dell’“iononhonientedanascondere”.

Di più. In latino secretum era il luogo appartato, il ritiro, la solitudine. E invece in America si sono inventati l’ultima: ci sono locali in cui sulle pareti bianche si può scrivere ogni tipo di sconceria, insulto o segreto, senza che si leggano, perché si usano pennarelli ad inchiostro simpatico. Solo con l’accendersi delle luci ultraviolette ad un certo punto della serata. Ed ecco che è tutto lì. “Ho addosso scarpe da 10 dollari, ma dico che sono costate 200”; “Mi sono scopata il fratello di mio marito”; “Io non sono più felice”.

Avere un segreto è noiosissimo. Meglio spifferarlo.


mercoledì 21 settembre 2011

IL SESSO E LA LANA

Kama, piacere. Sutra, filo che unisce.

Erik Ravelo ha preso il kamasutra dalla parte etimologica oserei dire. E così nasce Lana Sutra, una serie di quindici installazioni concepite come inno all’ammmore.
L’artista evidentemente si è trovato a riflettere su quel meraviglioso volume, quel repertorio di tecniche e posizioni erotiche di antica tradizione indiana e non avendo di che sfogarsi, ha riversato tutto il suo ambaradan di eccitazione sui calchi di gesso. Non posso che apprezzarlo.
Ad ogni modo, ogni installazione è formata da una coppia di calchi di gesso (qui il video del making of, una tale sbatta), un uomo e una donna abbracciati e avvolti da fili di lana.
Il progetto è stato presentato da Benetton – perché i toni della lana usata sono quelli della nuova collezione United Colors of Benetton – in tre città: Instanbul, Milano e Monaco di Baviera.
C’era pure la diretta streaming sul web: come ho fatto a perderla!?











martedì 20 settembre 2011

CARNIVALE, UN NUOVO AMORE

O mio dio. O mio dio. O mio dio.
Eccolo, il mio nuovo amore. Carnivale.


Ho scoperto tardissimo quest’altra perla, targata HBO: statunitense di nascita, è arrivata in Italia nel 2005, ma io me la gusto adesso. Perché l’avessi persa all’epoca? Solite storie di cattiva programmazione televisiva: trasmettere una serie così su Jimmy non mi pare sia stata una grande mossa. Ma comunque.

La serie si regge su un classico: la lotta tra bene e male. Ma il modo in cui di dipana tutta la questione non è per niente classico.
Prima di tutto dalla trama. Già la prima puntata è da mozzare il fiato, come quando un dito rimane incastrato nella portiera della macchina, più o meno. La scena si apre sulla landa desolata dell’Oklahoma del 1934, una casetta disastrata, lui – Ben – tutto zozzo, la madre in fin di vita. E già dici, ok. La madre muore, la seppellisce, si improvvisa un funerale e poi lui parte con questi del circo.
Storia parallela: un pretino di periferia con gli occhi assatanati alle prese con la sua comunità, mica tanto a posto pure loro. Una vomita monete così per così, mah.
Ma torniamo a Ben. Allora, lui si unisce al circo e lì si becca tutti i soliti fricchettoni del caso: la donna barbuta tutta ciccia e narghilè, la sensitiva secca dura nel letto, l’uomo-lucertola con un accenno di coda che gli esce dai pantaloni, le gemelle siamesi attaccate per una chiappa, il telepata cieco. Insomma, i soliti personaggi. Ma ovviamente tra tutti spicca lei, Sophie, l’indovina, quella che si capisce che tanto lui si farà: la sventurata, perché sì è una sfigata, gli fa le carte per vedere il suo passato e ne esce un quadro davvero disastroso. Che fine, quella povera gattina.
Leit-motive dell’episodio, ma penso della serie intera, il sogno che Ben continua a fare: guerra, soldati, morti, mutilati, un uomo tatuato, un campo. Tanta angoscia. Per non parlare di quando pure il prete farà lo stesso sogno. Brividi.

Complimenti sulla sigla a parte, il primo episodio è solo la prima dose di follia che Daniel Knauf offre al suo pubblico, perché tanto sa già che di questa serie non si potrà più fare a meno. Ha quel giusto friccicorìo che non ti fa smettere di guardarla, ma che ti fa venire la voglia di vedere come va avanti. Carnivale è davvero la serie più originale di questi ultimi anni. O meglio, il primo episodio lo fa sperare. Le atmosfere cupe e sinistre, la componente soprannaturali, l’introspezione della psiche, le perversioni dei personaggi. Senza dimenticare le scene cruente, violente e inquietanti (non voglio parlare di quello che la mente di quel ragazzo può partorire). Sì, sì, grandi aspettative.

Qualche chicca:


E ora mi guardo la seconda puntata.

lunedì 19 settembre 2011

"EVERY BAND NEEDS A SICILIAN"

Mike Patton, vestito da mafioso, che canta i vecchi successi di Fred Buscaglione e Gianni Morandi. Una meraviglia.


Il nostro caro Micheal Allan Patton è dal 1988 il cantante dei Faith No More, ha cantato e canta tuttora in altri gruppi come Mr. Bungle, Fantomas, Tomahawk e Pepping Tom. Una marea di collaborazioni, live e non, con artisti come John Zorn, Roy Paci, Melvins, Sepultura, Bjork e tanti altri. Questo ed altro lo racconta Wikipedia, a me interessa poco e niente.
La chicca – che non riesco a smettere di ascoltare – arriva nel 2010: il cd “Mondo Cane”. Uscito il 4 maggio dell’anno scorso contiene cover di canzoni italiane degli anni Cinquanta e Sessanta e, puro tocco di stile, all’album partecipa un’orchestra formata da 65 elementi. Scusate se è poco.
E a questi sessantacinque elementi si aggiunge quel tamarro di Roy Paci: Every band needs a sicilian, we have the best!”, così Patton lo presenta.

Già il titolo è imponente: «“Mondo Cane” è un film documentario del 1962 diretto da Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi. “Mondo cane” è considerato il capostipite di un filone cinematografico di documentari sensazionalisti, che prese il nome di mondo movie, volto a impressionare il pubblico mostrando usi e costumi insoliti, stravaganti e grotteschi delle etnie di tutto il mondo. Le immagini e l'onnipresente commento pseudo-sociologico fuori campo sottolineano ogni genere di dettaglio raccapricciante: mutilazioni all'interno di sette, asportazioni di organi genitali, lotte fra cani, cure medicinali alternative con l'uso di sangue e interiora animali».

Ma la cosa migliore di questa produzione è e resta lui. Mike Patton che sembra uscito da una cartolina sull’Italia di quelle che in America vanno tanto: un personaggio dei migliori, con quella pronuncia ben intenzionata, ma il cui effetto british alla Mal non può essere nascosto.
E comunque solo oggi sembra strano uno straniero che canta in italiano. C’è stato un periodo in cui era frequente sentire cose del genere, ma poi i nostri cari artisti italiani hanno smesso di avere successo all’estero e così nessuno ha più guardato in casa nostra.
Ma Patton sì e così sforna undici favolose cover:
  • Il cielo in una stanza (stupenda)
  • Che notte! (da vero coroner)
  • Ore d’amore (non è proprio una canzone italiana, ma vabè)
  • Deep down (direttamente da “Diabolik”)
  • Quello che conta (omaggio a Morricone)
  • Urlo negro (momento rock del cd)
  • Scalinatella (il classicone napoletano che stringe i cuori)
  • L’uomo che non sapeva amare (Fidenco è sempre di una tristezza)
  • 20 chilometri al giorno (una chicca)
  • Ti offro da bere (la riscoperta)
  • Senza fine (un classicone)
Queste quelle inserite nell'album "Mondo Cane", ma che comunque non sono tutte quelle che sono state effettivamente eseguite durante il live all'Holland Festival ad Amsterdam (tutto su youtube).

Da ascoltare. Tanto per passare questo noioso lunedì pomeriggio.


Una perplessità: perché tra i suggerimenti di ricerca che google fornisce quando si scrive “mike patton”, il secondo è “mike patton moglie”??


venerdì 16 settembre 2011

UNA PROMESSA E' UNA PROMESSA

E così eccomi qui a dedicare un post al compagno di università più rompipalle che esista. Certo, ha mille qualità … che al momento non mi sovvengono, ma che son sicura da qualche parte ci sono.

Matteo: io leggo il tuo blog. dovresti  dedicare un articolo ai miei gusti musicali.
Io: ahahha, lo farò
Matteo: e uno alle mie mille abilità, e uno alla mia persona, e uno al tuo amico di biella (che è sempre lui, nda). se vuoi sfondare devi per forza intervistarmi!
Io: secondo te non c'è il rischio che diventi un blog dedicato solo a te??
Matteo: c’è il rischio che diventi un blog di fama mondiale. poi fai te…

[per la pubblicazione di questa fotografia del lontano 2008 verrò linciata]
Senza essere troppo crudeli, di lui si può dire tutto ma di certo è il mio magister musicae. I suoi consigli musicali sono sempre azzeccati e si trasformano presto in grandi tormentoni: vogliamo parlare di Old White Lincoln dei Gaslight Anthem? Oppure di Pull a U dei The Kills? O se no di Fascination di La Roux? Insomma, grazie a lui grandi scoperte musicali.

Ma l’ultima è davvero una perla: I Baristi Stagionali di Edipo. La canzone diventerà un must.
Intanto il testo:

I baristi stagionali sbagliano dose del Campari
e oltre che a sbagliar la dose poi ti fotton le morose.
Perché farsi la stagione, spesso è solo l’occasione
per avere storie varie e non dover pagar le ferie.
Come quando tu m’hai detto “vado a stare un mese in Puglia
con l’amica quella brutta che nessuno se la piglia”.
E m’hai detto che sei una che riflette quando viaggia
e poi rifletti solo i raggi col tuo culo nudo in spiaggia.

Non so tu, ma io odio chi sbagli dose del Campari
chi ne mette troppo o tanto
è convito che sia un vanto!
Non so tu, ma io odio chi sbagli dose del Campari
chi ne mette troppo poco
è convinto che sia un gioco!

Le vacanze separate sono state solo un modo
per immaginarti con addosso il tuo costume nuovo.
Devo confessarti, ti ho spiato mentre l’hai provato
ma son pur sempre io lo scemo che te l’ha pagato.
E pensare che magari ora c’è un altro che lo slaccia
e poi ti sento il giorno dopo col magone nella pancia.
Nella pancia tu c’hai solo i residui della notte precedente,
chissà quanto hai bevuto inutilmente.

Non so tu, ma io odio chi sbaglia dose del Campari
chi ne mette troppo o tanto
è convito che sia un vanto!
Non so tu, ma io odio chi sbagli dose del Campari
chi ne mette troppo poco
è convinto che sia un gioco!

E da quest’istante tu puoi ritenerti sola.
Ti è bastata una vacanza e mi hai tradito ancora.
E da quest’istante tu puoi ritenerti sola
finchè non capisci l’importanza della soda.

Perché certe donne quando son confuse hanno un modo
di soffrire che è lo stesso in cui si diverte un uomo.
E i baristi per turisti son perfetti in certe sere
non sono bravi a far da bere,
ma son bravi a farti bere.

Tralasciando per un momento la puntualità del ritornello (“Non so tu, ma io odio chi sbaglia dose del Campari”), è un altro il passaggio geniale della canzone che la fa assurgere a must della stagione: “Perché certe donne quando son confuse hanno un modo di soffrire che è lo stesso in cui si diverte un uomo”. Ad una seconda, al massimo terza, lettura non c’è bisogno di commenti, ma solo una parola: GENIO.


Ed oltre a questa trovata, una fine notazione antropologica:
“I giapponesi sono dei pervertiti. Guarda un qualsiasi anime: ad un certo punto arrivano donne nude e vecchi che le inseguono. È un topos fisso.”

giovedì 15 settembre 2011

MICHELETTO, IDOLO

Intrighi, tradimenti, cospirazioni. Di nuovo.
Sinceramente mi aspettavo di più dalla serie sulla dinastia più stronza del Rinascimento: “The Borgias” delude le mie aspettative.
Anche se gli elementi per assicurarne il successo sembrerebbero esserci tutti: un confusionario pastone storico – che per gli americani si chiama “passato” – gente in costume con un accento strano (l’italiano di Jeremy Irons è una chicca), una tormentata saga famigliare. E last but not the least tra tutte le dinastie piene di problemi la Showtime va a pescare proprio quella che ha scritto INCESTO grosso così in fronte. Doveva essere un successo.
Ma a parte facili e presuntuose critiche non è proprio tutto da buttare.

Per quanto riguarda i personaggi, non è da sottovalutare il fascino di Jeremy Irons: nella parte di Rodrigo Borgia si trova abbastanza a suo agio (tutto svaccato sul trono papale è davvero un tamarro), ma quei capelli a scodella, vabè. Ad ogni modo, il suo è il personaggio centrale – ovviamente – quello che tutto vuole e tutto ottiene, con ogni mezzo. Il mezzo è naturalmente Cesare, impersonato da François Arnaud uomo di non scarsa bellezza, primogenito con un sacco di disturbi nel rapporto padre-figlio, e che per non smentire la sua reputazione tromba al minuto quattro della prima puntata. Lucrezia è molto deludente: questa quattordicenne slavata e svampita, senza ancora il minimo di guizzo nell’occhio, che giusto per mettere a disagio tutti si struscia e si rotola con il fratello maggiore ad ogni occasione.
Ma vera rivelazione e personaggio che ha subito conquistato il mio cuore è Micheletto. Assassino spietato e primo fan di Cesare Borgia, il giovane fa la sua comparsa alla grande: “I have smothered infants in their bed, but only when their parents paid me”, una frase che ha da entrare nella storia. Sorvolando sul tasso di omosessualità della scena in cui Cesare lo frusta e lui non fa che gridare “Harder, my lord”, Micheletto è in assoluto la punta di diamante del cast.
Tanta emozione quanta me ne ha data il giovane assassino, solo il principino Alfonso di Napoli nell’esporre al Cardinale Della Rovere la macabra collezione di cadaveri del padre: a metà tra la blasfemia (sono dodici, come gli Apostoli, e disposti a mo’ di ultima cena, perché re Ferrante sta ancora cercando il suo Giuda) e la necrofilia (il re di Napoli è solito cenare con i suoi cari cadaveri quando si sente solo.. bah).


Comunque, c’è ancora margine per rialzare le sorti di questa serie. D’altronde gli slogan promozionali promettevano “Sex, power, murder, amen”.

Per concludere, una chicca: la prova “testes et pendentes”. Sfatiamo questa leggenda perché questo test viene ritenuto dagli storici una bufala: nessun papa appena eletto si sedeva su una sedia bucata per farsi ravanare sotto la tonaca da un povero disgraziato che doveva verificarne la mascolinità. Tant’è che questa leggenda nasce da un’altra leggenda, quella della Papessa Giovanna: infatti, la storia voleva che la Chiesa avesse introdotto il rito del ravanamento giusto per non farsi più fregare dalla prima squinzera che passa.
Ma nonostante questo, non si può dire che la scena non sia esilarante: “Go on, the suspence is killing them”. Geniale.

martedì 13 settembre 2011

CLAUDIA, NON LEGGERE

Nella stessa giornata perdere le due serie televisive che mi tengono al mondo è davvero troppo.
Dopo la notizia della morte di Spartacus (sì, perché per me non è morto Andy Whitfield, ma è morto Spartacus proprio) ieri ho visto la puntata finale della quarta stagione di True Blood, così giusto per farmi del male.

I commenti stanno a zero, semplicemente senza parole.

Un susseguirsi di eventi fuori controllo: quella puttanella senza gusto in fatto di uomini di Sookie rinnega Eric (ma anche Bill), il vichingo ritrovato che bistratta Pam (un po’ a torto e un po’ a ragione), Re Bill che di regale ha ormai solo il titolo, Jessica e Jason che non si decidono a stare insieme ma che almeno si lasciano andare a giochi sessuali di ruolo (tocco di stile la cavalcata di lei nel bosco, “vestita” da sexy cappuccetto rosso) e Lafayette che viene posseduto un giorno sì e l’altro pure. E poi tragedie a non finire.

- Mi dispiace.
- Non preoccuparti.
- Che vuoi dire con "Non preoccuparti"? Ti ho ucciso!


Ma il caro Jace Lecob, cronista di The Daily Beast e Newsweek, l’aveva detto: «La quarta stagione di True Blood fa molte cose bene. Il secondo e il terzo episodio sono sanguinosamente brillanti (e su questo sono perfettamente d’accordo) e c’è un incredibile senso di tensione, visto che un numero di nuovi misteri allettanti si presentano al pubblico. Come sempre, c’è la potenzialità per questa nuova stagione di essere imprevedibile e sexy in modo oscuro».

Non farò commenti che inficerebbero la visione delle restanti puntante a chi ancora è rimasto indietro, però… sticazzi. 

[da apprezzare la versione di Jim Oblon di Where did you sleep last night? Notevole]

lunedì 12 settembre 2011

ANDY, MORITURI TE SALUTANT


Muore Andy Whitfield e con lui la speranza di vedere una seconda stagione di Spartacus.
Dopo le grandi emozioni regalate dalla prima serie Spartacus: Blood and Sand e dal prequel Spartacus: Gods of Arena, perdo ogni speranza: Andy è morto ieri a Sidney, stroncato dal cancro contro cui lottava da mesi.

Gli era stato diagnosticato lo scorso anno un linfoma non-Hodgkin, che già lo aveva costretto ad abbandonare il ruolo nella serie e dopo diciotto mesi di dura lotta, Spartacus ci lascia alla tenera età di 39 anni.
Mai diventato famoso per nient'altro (credo), la sua carriera si sarebbe snodata intorno ad un numero sconvolgente di ruoli: avrebbe reinterpretato BenHur, avrebbe dato nuova vita a Massimo Decimo Meridio, ci avrebbe fatto sognare nei panni di Giulio Cesare. E invece, la sua carriera finisce qui.

Scendono le lacrime a leggere quel che dichiarano la moglie e il presidente della Starz. "In una bella mattina di sole, a Sidney, circondato dalla sua famiglia, tra le mie braccia, il nostro bello e giovane guerriero ha perso i suoi diciotto mesi di battaglia contro il linfoma", dice la moglie Vashti. Chris Albrecht, presidente e ceo della Starz, società produttrice di Spartacus si è detto profondamente rammaricato: "Siamo stati fortunati ad aver lavorato con Andy nella serie. L'uomo che ha rappresentato un campione sullo schermo è stato un campione anche nella vita. Andy è stato onte di ispirazione per tutti noi per come ha affrontato questa battaglia molto personale, con coraggio, forza e grazia".

E quale modo migliore per colmare questo grande vuoto delle nostre anime telefilm-addicted se non ricordare la meravigliosa serie di cui è stato degno e fiero protagonista.
Sin dal primo episodio si intuisce subito la volontà di ottenere il massimo effetto hollywoodiano (nel senso più megalomane del termine) dalla trama e dagli effetti speciali. La prima puntata non sembrerebbe offrire niente di nuovo al fronte occidentale: un prode guerriero trace (di cui non si saprà mai il nome, se non quello da cui viene insignito dai Romani) è costretto a disobbedire agli ordine del cazzone romano di turno, il legato Gaio Claudio Glabro, per salvare la moglie Sura dall’attacco di una tribù nemica. Poi, le solite cose: lui fa lo spaccone con i romani, è costretto a scappare, tornando vede il suo villaggio andare a fuoco, lui e lei che si appartano chissà dove a fare sesso in tenda e poi i Romani che arrivano a prenderli. Separato dalla moglie e condannato all’arena, il Trace portato a Capua riesce ad entrare nella scuola di Batiato, prima come schiavo e poi come gladiatore: scende a patti col dominus per aver salva la vita della moglie, che intanto è chissà dove, e da qui si snoda tutto l'ambaradan.

Questa la prima puntata: l’archetipico eroe virile in cerca di giusta vendetta contro uno schifoso traditore. Assolutamente nulla di nuovo sotto il sole.
Ma poi arrivano l’arena e il sesso e gli effetti speciali. Impossibile non perdere la testa. Per l’appunto sono solo sangue e sabbia.

Tralasciando commenti inutili, questa serie ha regalato davvero emozioni.
E a queste "emozioni" si potrebbe dare una quantità considerevole di nomi: "addominali scolpiti che spuntano a destra e a sinistra", "gladiatori sempre in mutande che lasciano intravedere glutei (e ben altro) considerevoli", "schiave lascive sempre pronte a spogliarsi". Insomma, tutta questione di gusti.

La perdita del caro Andy lascia un vuoto, incolmabile. O forse no.
Tutto dipenderà da chi prenderanno come sostituto nella prossima serie.

venerdì 9 settembre 2011

AUTOSCATTO, CHE TRISTEZZA

Negli anni in cui tutti sono fotografi, arriva la “metafotografia” a sputtanare tutti.
A farlo è Mathieu Grac con una pensata geniale: fotografare chi si sta fotografando. Sì, perché i giovani sono degli sfigati (io per prima, ma con molto più stile) e la moda del momento è quella degli autoscatti. Una tristezza infinita.
E sorge una domanda: una volta le foto non si facevano per ricordare qualcosa, tipo la vacanza con le amiche, il bel panorama o il bacio con il fidanzatino?
No, niente pipponi sull’egoismo del Duemila e sul basso quoziente intellettivo dei poser moderni, però… per dio, che tristezza.


Ad ogni modo il nostro fotografo francese con il suo “Boyz and Gorls du Net” mette insieme una sconvolgente carrellata di esempi di questa generazione dell’autoscatto: un progetto per davvero sputtanare la stupidità di chi ha talmente tanto tempo libero da improvvisarsi fotografo/a professionista e modello/a professionista, allo stesso tempo. Le variazioni di genere sono doverose: nessuna distinzione, nessuno si salva, né maschi né femmine, né gay né etero.


Però, bisogna ammetterlo, l’idea è geniale. Bravo il francesino.

Poi giri sul web e trovi pure solide basi su cui fondare la teoria.
La sindrome dell'autoscatto "è un disturbo della personalità il cui sintomo principale è un deficit nella capacità d'autovalutazione. Questa patologia è infatti caratterizzata da una particolare percezione di sé del soggetto definita “Sé Fighissimo”. Comporta un sentimento esagerato della propria importanza e idealizzazione del proprio sé fotografato anche se in realtà il soggetto nella maggioranza dei casi è un inutile cesso. In ambito teorico, le diverse scuole di psicologia hanno dato interpretazioni e spiegazioni diverse di questo disturbo pur concordando che l'unica soluzione realmente funzionante è la soppressione dell'individuo affetto. Vanno inoltre considerati non patologici autoscatti saltuari o puramente ludici (cit. Sigmund Freud), anche se il soggetto dovrebbe comunque essere tenuto sotto la stretta osservazione di un buon psichiatra che dovrà preoccuparsi di non far avanzare la sindrome nel soggetto ricorrendo alla flagellazione o alla scarnificazione del volto, dove necessario".
Segue un’accurata, interessante ed approfondita descrizione del criterio diagnostico, della diffusione della malattia e del target più colpito. 

Non posso negare che sia affascinante.

mercoledì 7 settembre 2011

SINDROMI SVIZZERE

C’è chi dice che non so scrivere. Quindi, compiti a casa: «Trova cose da recensire a caso», dice il genio qui. Proéum (dal dialetto bergamasco, “proviamo”).


Sindrome ossessivo-compulsiva. A quanto pare siamo in molti a soffrirne.
Sistemare e ordinare sono solo due dei comportamenti tipici, inclusi in questo tipo di compulsioni. E girando per il web ce n’è di gente che non sta bene.

Ursus Wehrli, artista svizzero, ha avuto una pensata geniale. Anzi due. La prima ha il titolo di “L’arte a Soqquadro”: dopo i baffi alla Gioconda, è la cosa migliore che potesse capitare ai capolavori dell’arte. Il nostro rivisita celebri opere con l’intento di rimettere ordine nel caos, scomponendo e ricomponendo forme, colori e disegni e nemmeno la famosa camera di Van Gogh è stata risparmiata.

  
 Vincent Van Gogh_La stanza di Van Gogh ad Arles

  
 Non gli è sfuggito nemmeno Vasilij Vasil'evič Kandinskij

Ora invece si è dato al ripulire le immagini.
Dal riordinare al ripulire. Se questa non è una mania ossessivo-compulsiva.
In "The art on clean up", l'arte del ripulire, l’ultima sua impresa, il caro Ursus cerca di rimettere ordine nel casino degli oggetti di tutti i giorni fotografandoli prima e dopo la pulizia.
E così prende un rametto di pino e mette in riga tutti gli aghi di cui è composto. Prende una macedonia e riordina la frutta per tipologia. Prende sei ideogrammi cinesi (o giapponesi, non capirò mai la differenza) e ne scompone i singoli tratti.

   

     

   


Insomma, un folle geniale.

Non si può certo dire che non metta tranquillità questo tipo di scomposizione artistica (ad un’altra maniaca compulsiva come me, poi) però è certo che si tratta di uno sbattimento non indifferente.


Recensione bocciata.

VOCE DEL VERBO 'ADDOMESTICARE'

“Che cosa vuol dire addomesticare?”

“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami”.

“Creare dei legami?”

“Certo”, disse la volpe. “Tu fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, ed io sarò per te unica al mondo. La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio pane e grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano”.


La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore, addomesticami”, disse.

“Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.

“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”.

“Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.

“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”

il_piccolo_principe_settedieci

da “Il Piccolo Principe” di Antoine De Saint-Exupery